ROBOT SELVAGGI: SENTIMENTI ROBOTICI DA ATOM A ROZ E OLTRE

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Ultimo della genia Dreamworks, ormai trentenne studio trasversale (dall’indipendenza alla partnership con la Universal; praticamente coinquilini della Illumination) <U>Il robot selvaggio</u> di Chris Sanders, per Dreamworks già regista de <u>I Croods</u> e il primo capitolo di <u>Dragon Trainer</u> adatta con un gusto per gli amalgama già visto con <u>Le 5 Leggende</u> di Peter Ramsey i 2 tomi di Peter Brown. Con fondali opera di Raymond Zibach e character design di Nico Marlet che rendono il film un azzardato ma infallibile minestrone tra un acquerello animato (pensate pure a Van Gogh; non sbaglierete) e fantasmagoria hi-tech d’ultima generazione ha la ribalta tutta per ROZZUM 7134, semplicemente Roz, l’ultima arrivata in un settantennale di robot “umani troppo umani” che fa la spola ininterrottamente tra Oriente e Occidente senza alcun fraintendimento nell’esperanto di un immaginario-una mitologia moderna come si è espresso Fabrizio Modina-al di sopra d’ogni generazione e ogni geografia. Roz sarà senza dubbio la beniamina di quest’anno (scommettiamo: il suo giocattolo andrà a ruba a Natale) ma ha antenati che non la fanno affatto sentire una disorientata novizia: da Astroboy Tetsuwan Atomu a Astroganger, da Laputa di Miyazaki a Heroman di Lee, dal Pixar Wall-E ai Disney Baymax e Ron
ASTROBOY
Tutto comincia dalla storiella Atomu Taishi di un Osamu Tezuka agli inizi della sua carriera da nientepopodimeno che Dio. Atomu/Atom è un robot ambasciatore (Taishi) che dirime una guerra interplanetaria. Non sforzarti di capirlo, devi solo immaginarlo, parola di Tim Burton. E quel bambino meccanico, quel Pinocchio dell’era atomica non per frasi fatte, comincia appena un avventura filosofica durata metà secolo, passata per l’incontro con Walt Disney ispiratore degli occhioni di ogni manga da qui fino alla fine del Giappone, per il (comunque discutibile) film della Aardman, fino all’istituzione del Tezuka Award per il miglior manga e i più svariati omaggi moderni, nell’ordine più succinto Pluto di Naoki Urasawa, Kaiba di Masaaki Yuasa e Team Phoenix di Kenny Ruiz. Come nelle antiche fiabe popolate di bambini perduti, orchi e matrigne, nella maggior parte delle sue avventure Atom è costretto ad allontanarsi da casa per affrontare da solo un problema il più delle volte incarnato da un gigantesco nemico, che in ultima analisi interroga sempre l’animo umano, in particolare circa le motivazioni che inducono a compiere il male scrive Matteo Maculotti con un intervento per Bietti che riassume benissimo come Atom Tenma/Astroboy alla stregua di Frodo Baggins, Luke Skywalker e Harry Potter nasca, meglio scaturisca da crocicchi d’archetipi eterni e superiori. Astroboy è l’orfano fiabesco, inevitabile per una nazione che di orfani il proprio ventre imperialista e guerrafondaio recentissimamente stuprato dalla più devastante sconfitta da barbari oltre il mare, oltre il Pacifico ne aveva parecchi, è Topolino perché Tezuka è il Disney giapponese e sogna che chi è giapponese e appartiene alla generazione delle macerie e delle ombre sui muri possa averne uno proprio, è Pinocchio perché dal burattino al robottino, senza alcuna Fata Turchina che avveri il miracolo ma con lo stesso anelito da Collodi a Disney a Aldiss e i suoi Supergiocattoli per un estate intera, Frankenstein per Tenma-padre della tecnica che sfida la morte e Dio ma per amore, come un Orfeo il cui viaggio ha meta non Euridice ma Museo, è Superman per l’essere l’eroe che ispira e guida, non però un superuomo ma una supermacchina per superare la tecnofobia da shock del futuro di Toffler che Davide Giurlando riconosce-con Umberto Eco-nell’immaginario supereroistico dell’America (che Tezuka aveva ben presente) nell’epoca in cui la guerra fredda scatenava mostri atomici e marziani distruggitori. Ambasciatore lo è rimasto, come dimostra il manga ispanico di Ruiz, legato ai cinecomics Marvel e allo shonen contemporaneo.

Fanart di Alex Ahad
ASTROGANGER
Tezuka creerà un pantheon di attori tra i quali personaggi robotici non si circoscrivono affatto al singolo Astroboy. Tezuka-raccontano sia Maculotti che Massimo Nicora-è uno di quegli autori consci dei propri di maestri ma in grado di creare icone davvero rivoluzionarie. Gianni Bergamino e Francesco Moriconi hanno scritto enciclopedie su che tipo di humus fornisca base e sali minerali a Guerre Stellari/Star Wars e Watchmen rispettivamente, c’è la possibilità che le Cronache di Terramare di Ursula Le Guin abbiano ispirato J k Rowling per Harry Potter, Il racconto dell’ancella diventerebbe la cosa più imbarazzante Margaret Atwood riterrebbe d’aver scritto se si scoprisse le piccine somiglianze con Le lenti del potere di Alfred Elton Van Vogt (anzi ve le ho già fatte scoprire io 😆). Tezuka non ha mai negato aver avuto come stella polare Fushigi no kuni no Putchā di Fukujiro Yokoi, manga davvero venuto dal futuro per lo sperimentalismo dell’alternanza tra testo e disegno, in cui si ha un antesignano di Astroboy, Peri, coprotagonista però, mentre tra l’anonimo Atom di Atomu Taishi e Astroboy Tezuka inserì altri due antesignani: Ōzora maō con il suo robottino/bambino dalla testa a rotore d’elicottero, sicura ispirazione per Fujiko Fujio per il copter di bambù e Metropolis, dai retroscena molto più ampi di respiro. Negli anni 20 Tezuka adocchiò il poster dell’omonimo film di Fritz Lang, basato sul romanzo scritto in concomitanza dall’allora moglie Thea Von Harbou. Del romanzo “originale” (in maniera simile a quanto avvenne per King Kong, il cui romanzo dedicato di Delos Lovelace non è preesistente ma vergato in contemporanea alla sceneggiatura di James Ashmore) traspare l’inesorabile femminilità dell’autrice, partoriente un dramma romantico d’appendice alla Liala causa di conflitto prima e nel 1933 di divorzio con il marito, la cui prima sceneggiatura terminava con l’inabissamento di Metropolis novella Atlantide (e casualmente un altro regista tedesco, Wilhelm Pabst, lo stesso anno del divorzio Lang/Harbou dirigerà un film intitolato Atlantide) mentre Gustav Frohlich e Brigitte Helm fuggono dalla città su un missile diretto verso la Luna, finale che fu costretto a abortire e a ristrutturare nel suo 13esimo film Una donna nella Luna (l’introduzione mediatica del conto alla rovescia prima del lancio dell’astronave, inizialmente presente per accrescere la suspence ma effettivamente integrato nelle missioni spaziali volte a portare davvero l’uomo sulla Luna). La locandina con il volto della donna robotica incoronato da grattacieli assolutamente contigui con quelli dei dipinti di Antonio Sant’Elia rimase l’unica cosa che Tezuka conobbe del film, da lui candidamente ammesso di non essere mai stato visionato. Tanto bastò per fargli disegnare il primo manga tesaurizzante la rivoluzione del suo Shin takarajima/La nuova isola del tesoro di genere fantascientifico, Metropolis appunto, in Germania con il titolo Robotic Angel per evitare prevedibili grane con i pronipoti di Lang. Nel futuro l’umanità sembra abbia raggiunto il suo apice ma-avverte rompendo la quarta parete il luminare Yorkshire Bell-è quando una specie arriva al suo apogeo che si scorgono i primi segnali di quella che sarà poi la sua estinzione. La storia si articolerà quindi come una lunga parabola sulla hybris umana incarnata da Duke Red, il cui volto da uccello sarà riproposto con delle variazioni più buffe per Tenma Hakase. A capo del potentissimo Red Party il nostro sta sconvolgendo la Terra con un congegno che aumenta e controlla artificialmente le macchie solari, in modo da provocare lo scioglimento dei ghiacci polari per poter approfittare della terra vergine che custodiscono per farne il proprio quartier generale, con dei riferimenti sicuramente attuali in merito alla questione del cambiamento climatico. Non soddisfatto il nostro coopta un altro luminare, il Dottor Lawton, perché con le sue cellule sintetiche crei un essere umano potenziato, un homunculus con i superpoteri, che funga da ulteriore manodopera per lui. Lawton però in un gesto di ribellione distrugge il suo laboratorio salvando però l’homunnculus androgino (che può switchare da maschio a femmina con un non meglio specificato meccanismo nella bocca, anticipando il travestitismo della Principessa Zaffiro) e cercando di crescerlo nell’ignoranza della sua vera natura. Ribattezzato Michi, illa nostrə stringe amicizia con Kenichi, nipote del detective Baffoni, da tempo immemore sulle tracce di Duke Red ma con Duke Red che perennemente riesce a svicolare approfittando di ogni tipo di cavillo legale, figura presente ovviamente anche in Astroboy, cosa che però li porta nelle grinfie proprio del Red Party, dal quale Baffoni riesce a scappare sebbene con le ossa rotte. Ciononostante con l’aiuto dei robot del Red Party riesce a mettere in ginocchio la cupola. Nel frattempo con l’amicizia di Kenichi Michi scopre progressivamente la sua vera natura, fuggendo finendo per fare lə sguatterə su una prestigiosissima nave da crociera, l’Atlantis, anch’essa con copiosa manodopera robotica. Michi ha nel frattempo maturato un avversione per la razza umana e messəsi a capeggiare “quelli come ləi” in una gigantesca rivolta nella quale uno dei più illustri passeggeri, proprio Duke Red viene finalmente ripagato del male che ha fatto. Ma i rivoltosi non s’accontentano solo di questo. Michi si scatena e distrugge i grattacieli di Metropolis mentre i robot guerreggiano per le strade. Kenichi raggiunge Michi sulla cima di una torre in rovina costretto ormai a combatterlə, ma mentre sta per avere la peggio il contrarsi delle macchie solari trasforma Michi in una candela accesa, giacché era quella particolare condizione del Sole a garantire la sopravvivenza delle cellule artificiali di Michi, che si schianta al suolo in una pozzanghera. Mentre Astroboy pur non acquisendo mai l’umanità conosce un lieto fine (anche se il primo anime ha un epilogo comunque funereo: anche Astroboy perisce a causa del Sole, sebbene qui avvenga come sacrificio volontario per salvare la Terra) Michi è il più infelice dei suoi vaticinatori. Dopo che Astroboy immortalò Tezuka per sempre nell’immaginario collettivo il figliol prodigo di Tenma non rimase solitario. Dopo avemmo Magma Taishi/Ambassador Magma, risposta di Tezuka ai primi robot giganti di Mitsuteru Yokohama (palesemente suo allievo) in contemporanea al suo Midori no Mao. Se Midori no Mao è il primo robot costruito da alieni, Magma Taishi è il primo in grado di trasformarsi. Da Astroboy viene ripreso il topo del robot umano, espressivo e empatico, con una famiglia a carico e un “figlio” Gam piuttosto esplicito nelle somiglianze con Astroboy. Particolare notevole è il crossover con un altro gigante metallico tezukiano, Garon, il cui cuore e coscienza è un secondo piccolo automa, bambinesco e di nuovo sembiante di Astroboy
Quelli di Tezuka sono a tutti gli effetti attori compreso l’autore stesso, prono a numerosi autoritratti. Qui li vediamo in parata nel prologo del film Super Marine Express
Raccogliendo tutti questi spunti nel 1972 la piccola Knack Production distribuisce l’anime di 26 episodi Astroganger. Diretto da Tetsuhisa Suzukawa, condivide con Mazinger Z il primato di primo robot in technicolor. I Blaster hanno appena messo a ferro e fuoco il pianeta Kantaron, per ferita nell’onore inseguendo un astronave fuggitiva con a bordo Maya, superstite dell’ultimo loro bersaglio. Il computer di bordo indica nella Terra un pianeta appetibile per i Blaster ed è lì che Maya ripiega, incontrando un terrestre con il quale ha un figlio, Charlie. Maya non ha portato solo sé stessa sulla Terra: con lei c’è anche il campione di un minerale sconosciuto con astruse istruzioni per servirsene contro le avanguardie Blaster nonché un medaglione. Troppo presto i Blaster confermano i timori della nel frattempo deceduta Maya cominciando raffiche d’attacchi alla Terra. Con l’aiuto parentale il padre di Charlie ha portato l’unobtainium in un vulcano e-esponendolo al magma-l’ha visto crescere e scolpirsi da sé in un titano di 42 metri e 2 tonnellate di peso di nome Astroganga, con cui Charlie può unirsi con il medaglione cimelio della mamma.
Astroganga a differenza dei robot contemporanei e successivi è pensante autonomamente e Charlie non ne è il pilota ma l’anima (un gigante con il cuore bambino anni prima di Megaloman) e non ha armi, compensando con invidiabili cazzotti che vanno da parte a parte pure del marmo. Se insomma parliamo zitti zitti di un rudere, con un animazione su cui c’è poco da festeggiare (ma dopotutto a quei tempi pure la Disney riciclava animazioni al minimo sindacale), non ha acciacchi invece la trama, semplicissima invero, ma il robot gigante angelo custode di un bambino alle prese con le schifezze della vita scalda ancora il cuore. Ingenuità non brutte a parte il finale riscatta per maturità un anime che potrebbe inimicarsi molti per cause più grosse di lui: Astroganga sacrifica sé stesso per annientare i Blaster e trarre in salvo Charlie e la partner Cindy, seppuku che lascia i piccolini in lacrime ma con un grande risultato.
Un meraviglioso sfigato insomma: in Giappone i robot in stile Nagai prenderanno il sopravvento, in Italia idem, dopotutto parliamo di un fatale ritardatario; avevamo già visto Mazinga Z, Grande Mazinga, Getter Robot, Danguard, Goldrake, Jeeg, Daitarn 3, Gundam, trasformabili, armati fino ai denti, apparentemente senza speranza. Ma chi lo ha visto non lo scorderà mai

ROBOT TRA DISNEY E MANGA: HEROMAN E BIG HERO 6
L’amicizia tra un ragazzino e un robot guerriero: nessun de-javù? C’è ne è uno intermedio di cui ancora non parleremo. Dal 1972 facciamo le cose in grande e andiamo al 2009. 37 anni, quanto saranno cresciuti Kazuko Sawada e Kaoru Ozawa, piccoli doppiatori all’epoca. In quello stesso 1972 le avventure dell’Uomo Ragno (e se non avete capito chi sia affarracci vostri, qui si traduce) lo vedevano contro l’Ammazzaragni, robot aracnide mandato a distruggerlo. Chi ci avrebbe creduto che l’eroe di Stan Lee e Steve Ditko un robot l’avrebbe addirittura pilotato? Siamo all’inizio del decennio successivo e i giapponesi fanno il loro Uomo Ragno, Supaidaman, molto più che uno sputazzatore di ragnatele. Molto più che uno sputazzatore di ragnatele fino a che punto? C’è chi si ricorderà la Spider Buggy. Bazzecole in confronto alla Spider Machine GP7, supercar che spicca il volo come caccia supersonico e-in puro stile Daitarn 3-s’inserisce nel super robot Leopardon. Che dite ho fatto 5 chili e 1/2 lascio? Ma gli andirivieni di Stan Lee tra America e Giappone sono appena cominciati. Nel 2009 in collaborazione con la Square Enix, dietro Soul Eater e Kingdom Hearts per la loro risposta a Shonen Jump, Monthly Shonen GanGan (Fullmetal Alchemist, Black Butler, Durarara! Space Dandy) per Heroman. Il pensiero in merito corre subito a Astroganga: Joey Jones-il protagonista-salva un robottino da un cestino dell’immondizia per ripararlo. Le riparazioni prendono una piega più grande del previsto quando un fulmine lo colpisce trasformandolo nel massiccio e svettante a 400 cm Heroman, eroe robotico chiamato a frapporsi all’invasione degli alieni Skrull. Entrando anche lui in simbiosi con il suo robot tramite l’etereo bracciale Gauntlet un ragazzino ha appena coscritto un incredibile amicizia. Le coincidenze non esistono disse un grand’uomo. Nel 2009 alla Disney c’è la Marvel a fare da ormai un decennio la coinquilina. John Lassetter è appena diventato CEO e contrariamente ai suoi trascorsi in Pixar e quelli alla Disney segnati dalle sottovalutazioni della vecchia direzione troppo impegnata sulla via del pensionamento (dopo poco aver perso un quasi veterano come Don Bluth) in alto sulla sua tabella di marcia ci sono le fiabe e le principesse, addirittura in 2D, roba della più quadrata immaginabile, ma lascia una porticina aperta a soggetti più anticonformisti, come appunto far incontrare i Vendicatori (anche di loro vi devo dire di chi si tratta?) A Disneyland. L’uomo importante è Don Hall, da poco uscito dalla supervisione degli storyboards di quel La principessa e il ranocchio inaspettato successo neoclassico per uno Studio con un passato recente tutt’altro che entusiasmante e di lì a poco regista del fugace ritorno di Winnie the Pooh. Sceglie i Big Hero 6, gruppetto minore abbastanza fuori dai radar per permettere un adattamento senza gobbe. Mentre il successo del 49esimo classico Disney era ancora fresco Lassetter approva quasi 10 film e quello sui Big Hero 6 è tra questi. A essere sempre stato presente sul progetto è Chris Williams, uno dei tanti tuttofare dello Studio che con lo sceneggiatore Daniel Gerson e con un Lassetter impegnato altrove ma molto generoso di beneplaciti si mettono subito al lavoro. Come si fa però un Classico Disney che è insieme un cinecomic Marvel? Come si mette uno spandex su una principessa? Come si inseriscono degli artigli in vibranio nelle mani di Topolino? Che canterebbero mai Capitan America, Wasp, il Teschio Rosso? E che c’entra il Giappone? Parliamone con calma. Big Hero 6 è una fiaba cyberpunk che cresce e procede attorno a Baymax, rivoluzionario robot gonfiabile dalle forme e dal bianco candidi con un volto simile a un emoticon (●-●) infermiere del futuro. La mentalità che lo ha ispirato è all’inizio quella del Totoro di Miyazaki con un che della Maromi di Paranoia Agent, al momento di dover dare botte cala su di sé l’armatura di Mazinga e di quell’Astroganga rimembrato anche nel rapporto con il coprotagonista umano, Hiro Hamada. Kantaro Hoshi aveva perso la madre aliena, Hiro Hamada perde il fratellone Tadashi-genio e mentore-e allo stesso modo Baymax come Astroganga fa da tramite per smaltire il lutto, andando incontro a uno stesso seppuku finale con le stesse valenze psicopedagogiche. Avremo tutti sentito parlare e pure avuto un amico immaginario, fosse stata la nostra ombra
Come un giocattolo (dopotutto, cos’ha reso famosa la Pixar?), figure transazionali le più celebri delle quali sono la coperta-asciugamano bluastro di Linus Von Pelt e la tigre di peluche Hobbes dell’omonimo fumetto di Bill Watterson. Figure che inizialmente aiutano e supportano il bambinə nelle prime fasi della crescita per poi-con il subentrare d’amici veri e la generale maturazione fisica e mentale-diminuire la propria preponderanza, fino appunto alla morte/scomparsa: ormai possiamo cavarcela anche da soli. Certo; un dente dolente dell’intero film è il protagonismo di Baymax e Hiro su quegli che dopotutto sono più eroi: se il film non poteva essere solo su loro 2, con Hiro necessitante di persone umane ai fini della “terapia” Gogo Tomago, Honey Lemon, Wasabi no Ginger e Fred non hanno le stesse psicologie sfaccettate. Non è comunque un difetto perché sono tutti lo stesso interessanti e riusciti, se vogliamo sono figure quasi archetipiche della terapia mentale e morale di Hiro. Per dire, Gogo Tomago è la sorellona brusca ma amorevole, oltretutto già in odore di fidanzata, Honey Lemon è la sorellona più dolce, simpatica e dirimente di conflitti e turbolenze sentimentali, Wasabi no Ginger è il fratellone imponente e educante, una figura magnanima e carismatica alla quale appigliarsi come un mollusco attacca il proprio bisso solo allo scoglio più duro e inamovibile, Fred il fratellone spiritoso e giocherellone, più Roger Rabbit (Una risata può essere una cosa molto potente. Vedi, a volte nella vita è l’unica arma che ti rimane) che Shaggy di Scooby Doo. Inoltre per un film è dai tempi di Biancaneve e i Sette Nani che è necessaria una struttura con un macrotema al suo centro incentrato sui protagonisti limitando incursioni troppo insistite sui comprimari per evitare destabilizzazioni. Dopotutto che sfilacciatissima baraonda diventerebbe il film se vedessimo le vite familiari (o la loro mutilata mancanza) di tutti questi Big Hero 6! Per quello c’è la serie di Mark McCorkle che-con la diluita scansione in episodi-permette queste ricognizioni altrimenti dannose per la robustezza del film. Una captatio benevolentiae questo robot gonfiabile come un palloncino e morbido come un peluche per una Disney che si stava lanciando chissà dove? Può darsi quanto si vuole, ma pensiamo ai 6 mondi in cui il franchise mette i piedi. Il primo è quello Disney, con la sua estetica neotenica degli eterni cuccioli che simpatizzano il pubblico per le loro fisionomiche bambinesche (i disegnatori di Disney modificarono Topolino in silenzio, spesso usando in vario modo espedienti che mimano i cambiamenti della natura. Per dargli le gambe corte e paffute dei bambini, essi gli allungarono e allargarono i pantaloni. (Anche le braccia in seguito si ingrossarono ed acquistarono delle giunture che ne accentuavano l’aspetto grassoccio.) Le dimensioni della testa aumentarono e il volto assunse un aspetto più giovanile. La lunghezza del muso di Topolino non è mai stata modificata, ma esso è stato ingrossato e così appare meno sporgente. Gli occhi di Topolino crebbero in due modi: innanzitutto l’occhio del primo Topolino divenne, attraverso una trasformazione evolutiva discontinua, una pupilla [da Mickey’s Surprise Party (1939) – n.d.r.], in seguito l’intero occhio assunse dimensioni maggiori Stephen J Gould-Omaggio di un biologo a Topolino-Il pollice del panda). Il secondo è quello Pixar, ma esplorarlo adesso potrebbe sciupare sorprese future. Il terzo è il Ghibli: Baymax è un mix tra Totoro e i robot dell’isola volante di Laputa, senza nemmeno giocare a nascondino. Il quarto è il resto dell’animazione nipponica: i già citati Astroganga e Heroman (con lo zampino di Stan Lee….), ma pure il cyberpunk di Ghost In The Shell e il rapporto fraterno con un rimpiazzo artificiale di Fullmetal Alchemist. Il quinto è il fumetto Marvel, dopotutto è da lì che i Big Hero 6 provengono
Il sesto è l’altra metà, quella del “tutti-contro-tutti” cit.Luca Raffaelli, oltre la Dreamworks e come questa si sia ibridata con le “rivali” Pixar e Disney (dopotutto a detta di Simone Soranna la factory dei “sogni lavorati” da Dragon Trainer & Megamind in poi segue un percorso “de/genere” legato non solo all’ampio saltabeccare tra generi-fantasy con la saga di Dragon Trainer, Le 5 Leggende, la saga di Trolls e Ruby Gillman la ragazza con i tentacoli, fantascienza con Megamind, Mr Peabody & Sherman e Home, sportivo con Turbo-ma anche alla loro unione e con/fusione nonché a personaggi ancora più fuori dagli schemi di quella che era stata da sempre la loro prassi) quel Gigante di ferro di cui adesso parleremo

Baymax e Hiro secondo Hiroyuki Imaishi

Gogo Tomago secondo Darwin “Darkereve” Nunez
IL GIGANTE DI FERRO
Già vent’anni prima di Big Hero 6 Astroganga l’animazione occidentale l’aveva riproposto facendolo proprio con Il gigante di ferro di Brad Bird. Sceneggiatore per i Simpson e poi per la Pixar e infine per la Disney, il nostro adatta un romanzo di Ted Hughes di cui esiste un seguito con una controparte femminile

Il film è un adattamento portato con grandissimo successo nei cinema il 06/08/1999 a opera di Philip “Brad” Bradley, come il Rich Moore di Ralph Spaccatutto (52esimo Classico Disney di due pellicole precedente a Big Hero 6) fattosi le ossa tra i gialli Simpson e gli spaziali Turanga la cui figlia Leela-in superficie-lavora alla Planet Express tra due millenni. Il gigante/uomo di ferro nel film compare in scena “tutt’intero” mostrando poi la capacità di separare i pezzi del proprio corpo alla stregua di Gackeen robot magnetico mentre nel romanzo è la prima cosa che vediamo di lui: i suoi pezzi smembrati che i gabbiani equivocano come potenziale cibo/materiale da nido, assieme al suo pallino culinario per il metallo e i rottami che li compongono, con la discarica dell’artista Dean McCoppin nel romanzo di un anonimo ferrivecchi. Il ragazzino alleato-un novello Kantaro Hoshi?-Hogarth (tale nel romanzo e nel film) conosce nel romanzo il suo colossale amico tra le pagine mentre va a pescare con il padre, mentre il film segue l’approccio E.T: Hogarth come Elliot è orfano con madre workaholic e bicicletta pronta a spiccare il volo alla luce della Luna, differentemente è anche il momento in cui i 2 si conoscono per la prima volta: nel romanzo il gigante è intrappolato in una buca, nel film la fame l’ha fatto intrappolare tra i cavi di una centrale elettrica che rischia d’annichilirlo con le sue scosse (oltre a provocare un blackout molto Poltergeist che scatena la curiosità del ragazzino). Inoltre, nel romanzo il gigante si scagiona gli occhi dell’umanità sfidando in una gara di resistenza un “drago angelo spaziale” grosso come l’Australia, mentre Tim McCanliness, lo sceneggiatore, dà alla storia la gravità di una parabola sulla guerra fredda, la sua paranoia e la MAD, la Mutual Assured Distruction che l’infido agente CIA Kent Mansley innesca dai missili di uno dei sommergibili della flotta americana. Credo che la minaccia di guerra nucleare non è altro che un bluff. Una cosa è agire da assassino criminale, un’altra scegliere il suicidio. L’utilizzo di armi nucleari significa la fine per tutte le parti in causa, non solo per chi schiaccia il bottone per primo (Volodymyr Zelens’kyj)

Devilman sei ancora attuale
L’apocalisse atomica, la fine dell’uomo causata dall’uomo stesso, i giapponesi la conoscono troppo bene. L’angosciante Hadashi no Gen/Gen lo scalzo/Gen di Hiroshima di Keiji Nakazawa con i suoi bambini liquefatti dalla bomba A, il 50esimo episodio dell’Uomo Tigre con il famoso mausoleo delle orizuru, i robottoni, l’apocalisse dell’uomo voluta da Satana (Isaia 14 12 15) in Devilman, Godzilla che terrorizza i cinema ancora oggi. Forse aldilà del Pacifico l’eco è attutito, ma pure Trent’anni dopo la fine della guerra fredda (21/07/1969) si torna a pensarci, a sensibilizzare quei ragazzini che forse per primi rischiano di dimenticare cosa presuppone davvero quella nuvola a fungo che sancisce la distruzione del nemico dell’eroe robotico del giorno


In alto la torre/città di Industrial da Conan il ragazzo del futuro di Miyazaki (anch’essa tratta da un romanzo: The incredible tide di Alexander Key) distruttasi da sola per l’uso di un cannone a energia solare. In basso, un fungo atomico causato dalla sconfitta di un mostro meccanico in UFO Diapolon guerriero spaziale di Shigeru Tsuchiyama, in cui l’oggetto della contesa è sempre l’energia solare. L’energia solare cos’altro è se non un nucleare vicario?
In America proprio ci stavano pensando da prima di quel 1945: già Walt Disney e Floyd Gottfredson davano voce al timore di un uso militare e distruttivo dell’ancora non del tutto scoperta fissione dell’atomo in Topolino e il misterioso uomo nuvola

“Superman……..” Vedere il gigante di ferro, “pistola con un anima che non vuole sparare” mettere in scena un arsenale a noi già ben noto da Mazinga in poi per poi schermare la cittadina di Rockwell nel Maine da un missile nucleare facendosene colpire (ma non tutto è perduto……) mostra come a forza di mangiare sushi e hamburger la nostra Rozzum abbia ancora più radici. Guardando il film di Bird il parallelismo con Astroganga (di vent’anni prima) è innegabile. Un enorme robot di 40 metri d’altezza piovuto dal cielo, la sua simbiosi (qui solo simbolica) con un ragazzino orfano (Hogarth però ha la madre che Kantaro/Charlie deficita) e il suo mesto ma agrodolce seppuku contro una minaccia esplosiva. Per non parlare della sua prima pubblica buona azione, ragazzini afferrati dalla sua mano in caduta dal campanile della città; Katsuya che alla guida del suo mecha a tracciamento dei movimenti Daimos raccoglie da una scogliera l’aliena alata baamese Erika, l’Aida di questo Radames ipertecnologico. O il lamento davanti a un cervo ucciso; citazione a Bambi, ma riguardatevi il nono episodio di Combattler V con i due mostri costretti a combattere dai Cambelliani. O proprio l’agente Mansley, perfettamente sovrapponibile al razzista e fanatico generale Miwa del summenzionato Tosho Daimos. E di nuovo alla nostra Rozzum: le sue cure per l’anatroccolo Beccolustro, come gli animali le insegnino il valore della vita e della morte, il suo (evitato per poco) sacrificio per il bene degli animali che di rimbalzo hanno imparato da lei, il che ci porta agli ultimi due progenitori della nostra inarrestabile robottina. Ma prima almeno qualche menzione eccellente:
IL MIO AMICO ROBOT di Pablo Berger: muto e pertanto universale come uno dei film che stiamo per trattare tra pochissimo, l’amicizia tra un robot e un cane in una Manhattan anni 80 fatta Zootropolis (o Anima City di BNA Brand New Animals)
ROBOTS di Chris Wedge: ispirato a Metropolis di Fritz Lang e Thea Von Arbou e contemporaneo dello Scrapland per Xbox 360 una storia molto americana di giovani self made boys bots in lotta contro monopoli e magnati. Evitate come la peste (o la ruggine) la versione italiana
NEXT GEN di Kevin Adams: coproduzione tra metà America settentrionale e Asia, non è niente d’eccezionale: un mix tra Big Hero 6, Ron un amico fuoriprogramma e G Force superspie in missione. Trascurabile
RON UN AMICO FUORIPROGRAMMA-QUANDO L’AMICIZIA VA MERAVIGLIOSAMENTE STORTA


La sacra famiglia
Il nostro Ron il Bbot (da Buddy Robot, amico robot) pare un anello di congiunzione tra Baymax e EVE. Un robottino difettoso come il nostro già trattato gigante di ferro, qui per un imballaggio frettoloso e una caduta durante il trasporto all’emporio dei Bbot (che comunque hanno già chiuso…….). Ma non tutte le botte in testa vengono per nuocere giusto? Ovviamente non fracassate il cranio dei vostri cari a pentolate, ma tra tutti i Bbot-personalizzabili come gli smartphone con braccina e faccetta da emoticon che sostanzialmente sono-Ron diventa il classico “sbagliato” che aggiusta il mondo come Dumbo, l’elefantino scemo ma alato che è il progenitore più amato tra tutti da Walt Disney di questi eroi del genere cinematografico focale del Novecento. La favola del brutto anatroccolo? Ma quello non combina mai niente, Ecco la storia: il brutto anatroccolo è in realtà un cigno che finisce per sbaglio in una nidiata di anatroccoli. I genitori lo ripudiano, i fratellini lo schifano, lui si sente un cesso e finisce, dopo qualche tentativo distratto di essere felice rompendo le palle in giro, a piangere come un disperato su una foglia. A quel punto arriva la mamma cigno con i suoi piccoletti, che lo accolgono festosi e lo fanno stare con loro. Lui reincontra i suoi vecchi fratellastri e li snobba clamorosamente, e vissero tutti felici e contenti.
Bene. Innanzitutto non vedo cosa ci sia di educativo in quest’inno all’amore di rimbalzo, “io amo voi perché voi amate me, altrimenti ciao” (viene in mente Cetto LaQualunque). Secondariamente, non capisco come faccia questo ad essere un omaggio agli emarginati e a coloro che hanno difficoltà: il brutto anatroccolo è un privilegiato, anzi, è privilegiato due volte. Innanzitutto è un cigno, quindi nasce bello, figo e ricco; ma per di più passa qualche ora di guai, in modo che da grande, quando le telecamere lo riprenderanno all’uscita dalla sua Ferrari, potrà dire di aver avuto un’infanzia difficile e guadagnerà anche mille punti, nonché il diritto di parlare male della Ka$ta.
Se il brutto anatroccolo fosse stato un mediocre e poco interessante papero della middle class, uno di quelli che né si rifuggono (o inizia a fare il rapper) né si amano (o fa quello che vuole), allora capirei. Ma così, diamine, davvero no. E pure Disney alla fine fa dei suoi anatroccoli degli agenti: Dumbo spalanca le sue orecchie e conquista il circo, Quasimodo salva Esmeralda e tutta Parigi con la forza di un supereroe, anzi di un mostro, perché solo un mostro può servire per questa storia vecchia di due secoli di Victor Hugo, Shrek salva Molto Molto Lontano da Lord Farquaad e la “sua” Fiona decide di rimanere orchessa, meno sexy ma almeno libera dalla maledizione di Jessica Rabbit, Ooo il Boo pasticcione ma volitivo smette di fuggire e sdebita la sua razza con i “malvagi” Grog, adesso Ron il ferrovecchio, il Bbot con lo schermo in frantumi diventa l’amico glitchato che però non è solo quello di cui Barney Pudowski, pure lui il secchione, il loser, il piscialetto, la mammoletta, il New Type. Horrendous Hiccup III° non avrà i muscoli degli altri vichinghi, ma ha intelligenza, coraggio, comprensione, poggia la sua mano sul muso del drago mangiauomini alla luce della stessa Luna che s’illuminava tramite le dita di Et l’alieno buono di Spielberg (fondatore della Dreamworks…….); nessuno l’ha mai fatto; lui, il non “fichingo” l’ha fatto. 22 La pietra che i costruttori avevano disprezzata è divenuta la pietra angolare.
23 Questa è opera del SIGNORE, è cosa meravigliosa agli occhi nostri. Adesso c’è il robottino che è caduto dal camion come prima quello che bowinianamente cadde sulla Terra, la prima tessera del domino che porterà lui e gli altri Bbot a diventare migliori, a guidare i loro piccoli users a essere persone migliori, specie dopo che questi ultimi li hanno quasi fatti diventare Pokemon (o Medabot) creando un cassoliano “gigante cieco” che inghiotte la più vanitosa della Nonsuch Middle School, Savannah Meades, marchiandola a fuoco con il nomignolo “pupù girl” e mostrando quanto pertinace possa essere il cyberbullismo e quanto una tecnologia disumanizzata generi disumani. Non è una boutade che il corrotto CEO della fabbrica dei Bbot, la Bubble, sia Steve Jobs e la Bubble………non ci siete ancora arrivati? Steve Jobs, il pioniere del computer inteso come prigione resa cool, progettato per separare gli stolti dalla propria libertà (Richard Stallman). Non condividiamo una totale demonizzazione, ma è indubbio che lo smartphone e tutti i suoi amici non abbiano contribuito per un 40% a peggiorarci. Ma tutto dipende dall’uso che abbiamo deciso di farne. Perduti nei boschi come la nostra Roz (che poi Ron……Roz………tutte comunque varianti di robot, parola cecoslovacca che significa schiavo) Barney e il suo (inaspettato) amico elettronico creeranno una nuova amicizia, tecnologica e umana, capace dagli schermi dei nostri smartphones di farceli alzare più in là. L’origine del robot come concetto risale al dramma teatrale cecoslovacco RUR Rossumovì Universalszjni Roboti di Karel Capek, in cui Rossum, incrocio tra Frankenstein e Ford crea dei perfetti esseri meccanici infaticabili da usare come schiavi-già detto che robot in cecoslovacco significa schiavo-ma adesso sappiamo che questi automi non sono più schiavi ma fratelli

LAPUTA CASTELLO DEL CIELO

Tutto cominciò con un giocaccio di parole. Jonathan Swift è tra i tanti padri della narrativa fantastica, il suo I viaggi di Gulliver è da 300 anni un telamone della narrativa per ragazzi, ma come per La fattoria degli animali di George Orwell e La collina dei conigli di Richard Adams il tempo smussa gli spigoli ma anche il Diario di Anna Frank-dopotutto scritto da una ragazzina-è solo l’eco di un opera letteraria completamente diversa e assolutamente non per ragazzini. Da Gulliver che spegne un incendio a Lilliput pisciandovi sopra-vi fa schifo la scena di American Pie con la schiuma della birra essere in realtà sperma? Guardate in aggiunta che bere sperma umano non è una cazzata: esiste il macho mojito, un drink che ha come ingrediente principale…….esattamente quello di cui abbiamo parlato finora-a Brobdingnag la cui regina usa il protagonista come un incrocio tra un tampax (Nella tua cameretta
c’è un signore che aziona la pressa
suoi tuoi piccoli amici di ovatta
che invocano aiuto,
ma lui te li ruba e va via.
Tu piangi e insegui i tuoi
morbidi, teneri, fradici
tappi per la figa pelosa.
E da oggi i tuoi tappi per la figa pelosa
li trovi anche in confezione magnum
da ottanta pezzi;
i suoi bei sigaroni morbidoni.
Ma vorrei farti una domanda:
ti sei accorta che io sono un ometto?
E vorrei fartene un’altra: hai le mestruazioni?
Shh. Dormi adesso. È tutto finito.
Protagonista del mio tempo,
protagonista della mia sessualità.
Essere donna oggi,
vivere il prodigio del tuo ciclo mensile
ostentando sicumera.
Essere donna oggi,
aspirare al ruolo che la storia ti deve:
quello di simpatica,
paciosa, imprevedibile
nocchiero di un veliero proiettato
verso il mare del duemila
al grido di “Cazzo, subito!”.
Hey, I catch you in the way,
sing oh hey, shandu hays, uidisais,
the faith in the form before you yaps Elio e le storie tese-Essere donna oggi-Italyan rum casusu cikti) e Geisha Balls, arrivando appunto all’isola che naviga come quella a elica di Cyrus Bickerstaff non per i mari ma lassù in alto, nell’alto dei cieli di cui tutti sappiamo grazie a Hayao Miyazaki significa letteralmente La Puttana. In spagnolo

Nell’opera di Gulliver Laputa è una satira della scienza e del mondo accademico dell’epoca. Un isola di sapienti insipienti con la testa per aria al punto da vivere per aria, fiancheggiati continuamente da valletti che li percuotono con bastoncini per disincantarli dalle loro elucubrazioni, grandi scienziati (scopritori dei satelliti di Marte prima dell’astronomia ufficiale) ma divorati da paturnie e paranoie incommensurabili e inaffrontabili, la cui scienza e scemenza si produce in esperimenti che cambierebbero le espressioni facciali dei Dottor Honeydew e Dottor Beaker. I viaggi di Gulliver era un pamphlet satirico, pure nell’ultima parte, forse la più fiabesca, quella degli Yahoo e degli Houyhnhnms, i secondi cavalli intelligenti che hanno rivoltato i rapporti padrone/addomesticato con gli esseri umani creando un utopia è-pure quella-una satira sui moti rivoluzionari che culmineranno con la Rivoluzione Francese. After I’ve debunked for you such an indisputable classic you’ll never see Equestria in the same way again. Ma veniamo al film di Miyazaki. Nel 1986 Miyazaki, Takahata, animatori come Yonebayashi e Sadamoto nonché l’uomo che è per Miyazaki quello che Morricone è per Leone, Rota per Fellini, Williams per Spielberg, Elfman per Burton, Ifukube per Honda, Badalamenti per Lynch, Mamoru Fujisawa si raccolgono a Koganei, provincia di Tokyo e fondano lo Studio Ghibli. In realtà Laputa non è il primo film dello studio, Nausicaa della valle del vento merita quest’onore, ma Laputa castello del cielo marca una svolta nella vita e nella carriera del Sensei di Bunkyo (sempre Tokyo provincia, come dire il frutto non cade mai troppo distante dall’albero). È il primo film maturato nella completa indipendenza, imbevuto delle esperienze precedentemente avute con una castrante Toei Doga in merito alla seconda regia cinematografica dopo l’inedito Garibā no uchū ryokō, Gulliver’s travel beyond the Moon a riprova che in capo a vent’anni certe idee vengono riesumate più feconde che mai, addirittura con un migliorato terreno di coltura. Dopo La grande avventura del piccolo principe Valiant, basato sulla mitologia degli Ainu dell’Hokkaido ma stravolto in nome di un occidentalizzazione di suo poco comprensibile, se si pensa agli elogi del Giappone antico, feudale, dei film di Akira Kurosawa fatti da Sergio Leone, George Lucas e Federico Fellini, dal Setting ritinteggiato per essere europeo (poco male, non sapevano di avere a che fare con un discreto eurofilo……), con canzoni affidate al musichiere Yoshio Mamiya (non se ne fece niente e la colonna sonora rimase strumentale) e animaletti simil disneyani, ovviamente cercando d’imitare quella House of Mouse che con la futura Ghibli avrebbe incocciato per virtù/demerito di Harvey Weinstein e quella tentata localizzazione di Principessa Mononoke lo Shogun stroncò sul nascere con la celebre katana con tanto d’imballaggio a base di puffetti di polistirolo istoriata con un post-it severamente scritto con un anglofono ma indiscutibile NO CUTS. Dopo la quadrupla parentesi Lupin (gli episodi della prima serie dal 12 al 23, Albatros le ali della morte-14/07/1980, Lupin e il castello di Cagliostro, Anche i ladri amano la pace-22/09/1980), Miyazaki dimostra la summenzionata eurofilia chiedendo all’italiana Rever una collaborazione per un adattamento dei racconti di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Telefona lui, gli telefonano loro, dietro alla Rever c’è un istituzione dell’animazione italiana, fondata nel 1946 da Antonio “Toni” Pagotto/Pagot e Ferdinando “Nino” Pagotto/Pagot e artefice del primatista (con coetaneo, La Rosa di Bagdad di Antonio Domeneghini) nel lungometraggio animato dell’Europa meridionale I fratelli Dinamite, seguito da quel Calimero che pure lui andrà in Giappone mostrando la fattibilità di una partnership tra lo Stivale e Kegutsu, in anni dove in Italia l’animazione giapponese è considerata dai più vecchi e dai membri del settore un usurpatrice oggetto d’infuocate polemiche dalla politica sinistra (c’è da complimentarsi per il più sinistroide dei registi italiani, Nanni Moretti, per l’aver sbandierato proprio un film di Miyazaki, La città incantata, nel suo Il caimano come visione alternativa per la prole “contro” l’imperialista Disney, con bello sfoggio di cortissima memoria) al netto appunto di un animazione made in Italy congelata da 10 anni e i cui primi segni di resurrezione rimonteranno a un altro decennio ancora con L’eroe dei due mondi di Guido Manuli e La freccia azzurra di Enzo d’Alò. Nausicaa della valle del vento-premio al Fantafestival di Roma-tratto dall’omonimo manga di……..beh sempre Miyazaki, più versatile di Ben 10, fondò il Ghibli causa regime d’assoluta libertà creativa, indispensabile per Laputa. Proprio di libertà di creazione/lavoro ha il film come macrotema: durante la lavorazione Miyazaki volò in Inghilterra per dare supporto morale ai minatori in sciopero contro la tirannide di Margareth Tachter, e proprio i minatori, antesignani dei boscaioli di La storia della principessa splendente di Takahata sono protagonisti di una storia tutta etica del lavoro e conflitto “positivo” con la natura. Nella belle epoque che coinvolgerà pure il successivo Il castello errante di Howl i minatori-gli estrattori di carbone e petrolio, uniche risorse energetiche del periodo-sono leniniani utili idioti che in virtù della dialettica servo/padrone di Hegel nonostante detengano un potere assai più grande di quello dei loro soverchianti (minatori e petrolieri=energia=benessere per i padroni; minatori e petrolieri ≠energia≠benessere per i padroni) sono odiati, ghettizzati, sacrificati se necessario. Eppure Miyazaki, contro l’ambientalismo di quelli che Martin Capaross chiama ecololò nobilita questi “inquinatori” come 10 anni dopo rifarà con Principessa Mononoke. D’altronde già in un altra opera seminale, Conan il ragazzo del futuro, i reietti alla base di Industria sono-con il Dottor Rao, padre della newtype Lana (I due giovanissimi protagonisti non mancano di sorprendere, presentando tratti sovrumani: Lana riesce persino a “volare con la mente” fino a trasmigrare con il corpo e riuscire a vedere il naufrago Conan. Il ragazzo, dal canto suo, dà prova in alcuni frangenti vitali di inaudita forza fisica Alessia Spagnoli)-i massimi eroi di una storia che, in un contesto più libero come quello cinematografico, dribblano le mancanze di un prodotto venuto troppo presto per i palinsesti di NHK. Se Conan è il ragazzo del futuro Pazu è quello del passato: come il poco precedente Nausicaa e il di 9 film successivo Mononoke rappresenterebbero-sempre secondo la Spagnoli-l’inizio e la fine di un ciclo, si potrebbe dire lo stesso per Conan/Laputa. Tornano i villains tronfi, “adulti” ma più bambocci dei ragazzini, piccoli Dmitrij PavloviÇ che con la guida di vecchi e saggi AleksandroviÇ Miusov mettono riparo a quanto fatto dai Fedor PavloviÇ che li hanno generati, tornano appunto loro, saggi, piccoli salvatori del mondo (Elsa Morante ne sarebbe stata orgogliosa), tornano i cieli pieni di aeronavi meravigliosamente corrusche, mostri d’acciaio e gasolio in debito con il futuro ottocentesco di Jules Verne, Albert Robida, pure a livello autoctono il “Verne giapponese” Shunro Oshikawa e i loro equipaggi, con le loro Monsley, i loro Dyce, soprattutto per noi i robot, meravigliosamente diversi dai samurai ipertecnologici e iper-commercializzabili che nel 1978 si chiamavano Daimos (che citiamo per l’astronave Daimovich e la ctonia Ryuujin Kutsu, grotta/scogliera draconimorfa che insieme alla sua più high-tech limitrofa è una somiglianza indesiderata ma indimenticabile con l’anime televisivo più riuscito di Miyazaki) e nel 1986 Gundam ZZ. L’acefalo Robotoid che viene usato come minipala cingolata, le Truppe del Paradiso del nostro Laputa, evoluzione ancora più biopunk-con i meccanismi spogliati della loro corazza e infettati dalle piante che crescono rigogliose e decadenti sulle rovine dell’isola dei cieli che sopraffarà il nuovo (o vecchio?) Lepka, Muska, mentre i puri di cuore Sheeta (antenata di Lana) e Pazu (antenato di Conan) atterrano sani e salvi, senza tesori che li vizino ma con i cuori pieni d’amore e pienezza per l’aver fatto la cosa giusta-del Soldato Invincibile, liquefatto leviatano con 5 anni d’anticipo sul Tomorowo Taguchi di Tetsuo the iron man protagonista del finalissimo di Nausicaa, che a inizio film vediamo (in un remake dei titoli di testa di Conan) ombre di fuoco su una città da loro sovrastata come noi sovrasteremmo un plastico cittadino, apocalisse antipasto di lieto fine prima d’introdurre i classici voli per aria, di Nausicaa con il Mowe M02J, Kushana altera regina versione meno selvaggia e attaccabrighe della matriarca Dola con le sue grandi artigliere-il Gigantor di Industria?-qui la Tiger Moth dei pirati di Dola (i Mamma Aiuto nemici e poi alleati di Marco “porco rosso” Pagot?), il fusiforme Goliath dell’insaziabile Muska, l’ornitottero dei nostri umili antieroi, come è prassi per Miyazaki è l’individuo anonimo, avulso dalla mondanità a essere protagonista e oggetto di una vittoria che gli arride perché è stato tutto solo il suo dovere, perché quello che ha fatto l’ha dovuto fare, non perché il caso abbia la meglio. Dentro le viscere di Laputa, fredde e fangose per l’incontro tra il legno marcescente e l’acqua pura eppure ipersensibile all’inquinamento si discende, viaggio infernale lassù tra le nuvole, perché lo si deve fare, tutelando una pietra gravitazionale che, scolpita dagli accadimenti, è mattone che sa dove dev’essere messa
WALL-E

Energia………Fetus………Cariocinesi………Fenomenologia………..Meccanica………Mutazione……Anafase. Nomi scientificamente complessi, scaturiti da manuali di biologia Zanichelli, i 7 titoli del primo album di una leggenda della musica italiana, Franco Battiato, uno dei quali-Fetus-battezza tutto il disco, pubblicato per la sfortunata Bla Bla di Pino Massara, un concept album adattamento de Il mondo nuovo di Aldous Huxley, all’epoca pubblicato per la traduzione di Lorenzo Gigli per Mondadori, che vede Battiato introdurre nella musica italiana i suoni del sintetizzatore in valigia VCS3, usato anni dopo da Jean Michael Jarrè, combinando vieppiù altri suoni:
-in Energia Gianluigi Pezzera introduce delle voci di bambini registrate di nascosto (con l’aiutino della figlia Elisabetta) in un asilo di Milano
-in Meccanica vengono aggiunte le voci di Nixon in comunicazione con Neil Armstrong e Buzz Aldrin mentre si compiva l’alunaggio
-in Anafase vi è l’intromissione dell’Aria sulla quarta corda di Bach, successivamente conosciuta come la sigla di Quark e Superquark di Alberto Angela
Un uomo nasce in un mondo futuristico dove il sesso è libero ma la spiritualità dell’uomo è soffocata da un intorpidente benessere (fetus|una cellula|cariocinesi|fenomenologia), un uomo che però-forse in una rimembranza di Il vagabondo delle stelle di Jack London, allora edito dalla Sonzogno per la traduzione di Tullio Tulli-ha memoria di vite avute prima, sentendo che un grande cambiamento sta per occorrergli, dalla carne passerà, evolverà nella pietra o nel metallo (cariocinesi|mutazione), diventando un cyborg, metà uomo metà robot (meccanica), Meccanici i miei occhi
Di plastica il mio cuore
Meccanico il cervello
Sintetico il sapore
Meccaniche le dita
Di polvere lunare
In un laboratorio
Il gene dell’amore, nonostante il cuore plastico, il sapore sintetico ha con lui il gene dell’amore e sarà con quello che partirà-finalmente libero-per le stelle, prima tappa la Luna, Varcherò i confini della terra
Verso immensità…
Sopra le astronavi
Verso le stazioni interstellari
Viaggerò…
Con lo zampino del suo allora manager, Gianni Sassi, Battiato viene fatto conoscere al pubblico come una figura controversa, nonostante Franco stesso avesse immediatamente adottato il profilo pacato, squisitamente socratico, che sarebbe stato suo fino purtroppo a Torneremo ancora, il suo ultimo album prima della scomparsa……..o dovremmo dire il ritorno di nuovo ai giardini della preesistenza? Inventandosi l’indimenticabile copertina, un feto morto su giallastra carta da salumiere, con dentro una foto di Battiato come quarto membro dei Bee Gees, oltre che una foto di Hon-En Kathedral, installazione di Niki de Saint Phalle di quasi 10 anni prima: un enorme donna psichedelica riversa a gambe spalancate su una vagina-tunnel nella quale a attendere i visitatori c’era un bar (Piero Schivazappa se ne farà fare una copia con porta/vagina munita di rostri taglienti dallo scenografo Francesco Cuppini per Femina ridens). Il senso è palese: in copertina di Fetus c’è il nostro Mc900 ft Jesus di One step ahead of the spider, uno sfigato inadatto a questo Mondo Nuovo mentre dentro vediamo un mondo di donne sovrane (Le lenti del potere di Alfred Elton Van Vogt è di quasi dieci anni dopo) per le quali partorire è uno svago. Meglio allora stare con le macchine.
Che c’entra con la Pixar? E Wall-e, rivoluzionaria prima incursione nella fantascienza seria da parte dello studio di Emeryville, per la regia di Andrew Stanton? Il robottino W*A*L*L*E, Waste Allocation Load Lifter Earth, come nelle canzoni di Battiato ha sulle sue meccaniche dita polvere lunare (dove, sulla Luna, hanno aperto un centro commerciale anche lassù) e dentro il gene dell’amore. E che varcherà i confini della Terra verso immensità, verso le stazioni intergalattiche viaggerà. E ogni viaggio comincerebbe per amore: per anni senza nessun altro su una Terra coperta di rifiuti il nostro indefesso netturbino e collezionista della memoria dell’uomo un giorno vede scendere dal cielo una robot femmina più avanzata, dalla scocca pulita e il volto cangiante schermo a cristalli liquidi che s’esprime per emoticons, E*V*E Extraterrestri Vegetation Evaluator, bypassando il suo micidiale cannone al plasma questo gene troverà il citoplasma in cui attecchire.

Gli antenati di Roz e della sua-non a caso-Direttiva sono qui; la bellezza di 16 anni prima. Certo, i romanzi di Peter Brown usciti tra film e film, ma anche se gli sceneggiatori non l’ammetteranno nelle interviste la contaminazione tra Pixar, Disney e Dreamworks, ma il processo per riassumerle come creta che torna a essere pasta infinitamente prolifica passa dal semplice totocopie-sapete? Le follie dell’imperatore copia La strada per El Dorado, Z la formica copia A bug’s life, Shark Tale copia Alla ricerca di Nemo, Megamind copia Gli incredibili, Brave ribelle copia Dragon trainer, Troppo cattivi copia Zootropolis, Ruby Gillman la ragazza con i tentacoli copia Luca, Orion e il buio copia Inside out………..devo continuare? Poi con due film Disney-Ralph Spaccatutto e Big Hero 6-temi e stili d’animazione si atomizzano in un Le particelle elementari di Michael Houllebecq versione Robert Iger che tra scoppi e linguaggio dei segni hanno spostato l’asse dell’animazione occidentale, perlomeno quella americana da multisala. Da chi altri se non i dirimpettai di Emeryville imparare a creare robot umani troppo umani? E quelli Pixar volano per migliaia di chilometri luce attaccati per una precaria chela delle loro portatori di una pianta che risveglia-con in aggiunta il loro amore-un umanità come mai-al suo peggio-avremmo pensato di vedere in una coproduzione Disney. Come nella distopia eugenetica di Dougal Dixon Man after man an anthropology of the future uomini ridotti a antiestetiche, derelitte masse di grasso con uno scheletro ovviamente sopraffatto da tutto quel grasso che la “premurosa” multinazionale Buy N Large ci ha per secoli dato da mangiare, mentre il nostro pianeta si insteriliva e si ammantava di rifiuti come sotto una nevicata di tutti gli oggetti, di tutte le merci che come bambini disattenti e capricciosi-Sid?-ci sollazziamo e poi oplà, con cuore di pietra e portafoglio d’antimateria dopo pochissimo nel cestino, in discarica, in un museo piangi piangi, che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero
Bosch in miniatura, un salvadanaio di terracotta, un quaderno
con tredici righe, un’azione della Montecatini:
piangi piangi, che ti compero
una piccola maschera antigas, un flacone di sciroppo ricostituente,
un robot, un catechismo con illustrazioni a colori, una carta geografica
con bandiere vittoriose:
piangi piangi, che ti compero un grosso capidoglio
di gomma piuma, un albero di Natale, un pirata con una gamba
di legno, un coltello a serramanico, una bella scheggia di una bella
bomba a mano:
piangi piangi, che ti compero tanti francobolli
dell’Algeria francese, tanti succhi di frutta, tante teste di legno,
tante teste di moro, tante teste di morto:
oh ridi ridi, che ti compero
un fratellino: che così tu lo chiami per nome: che così tu lo chiami
Michele

I giocattoli di Andy avanzano una colata di rifiuti alla volta verso l’inceneritore; Saetta McQueen è in testa, ma Strip Weathers è un rottame abbandonato nello spiazzo erboso del circuito della Piston Cup; il più lugubre e temuto critico culinario di Parigi, Antoine Ego, è al ristorante di Gosteaux e Remì è con il padre davanti alla raccapricciante vetrina di uno sterminatore (Now, this is what happens when a rat gets a little too comfortable around humans); Carl Fredericksen e Russell Jang hanno preso strade diverse, la casa di Carl pur con i palloncini è un macigno inamovibile; Arlo giace piangendo sotto la pioggia, Spot chissà dove; Luca e Alberto sono sotto la pioggia, nessun modo per nascondere la loro natura di mostri marini, Ercole sta per arrivare e nonostante la sua nomea di bulletto altezzoso sembra proprio che la minaccia di impalarli con una fiocina sia la cosa più seria che abbia mai detto. Ma non è così che finiscono le storie, non è così che un eroe, pur né più né meno che una merce, muore davvero. Come l’idrovolante di Marco Pagot non può essere abbattuto da un attacco alle spalle, un vile attacco alle spalle, il suo Savoia S21 infatti riappare tra le nuvole intonso e valoroso, lo guida un eroe, un cavaliere volante, non qualcuno che possa morire per una pugnalata alle spalle. E infatti un gancio meccanico li solleva tutti da quell’inarrestabile bevuta verso essere liquefatti; Saetta McQueen svolta via dal traguardo quando per esso gli manca un millimetro, spinge il rivale verso una linea del traguardo non gli tange più non sia stato lui a varcare; tutti i topi di Parigi presiedono le cucine e Antoine Ego si vede servita la ratatouille che lo cambierà per sempre (Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che, nel grande disegno delle cose, anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale… ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero… ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni: al nuovo servono sostenitori! Ieri sera mi sono imbattuto in qualcosa di nuovo, un pasto straordinario di provenienza assolutamente imprevedibile. Affermare che sia la cena sia il suo artefice abbiano messo in crisi le mie convinzioni sull’alta cucina è a dir poco riduttivo: hanno scosso le fondamenta stesse del mio essere! In passato non ho fatto mistero del mio sdegno per il famoso motto dello chef Gusteau “Chiunque può cucinare”… ma ora, soltanto ora, comprendo appieno ciò che egli intendesse dire: non tutti possono diventare dei grandi artisti, ma un grande artista può celarsi in chiunque! È difficile immaginare origini più umili di quelle del genio che ora guida il ristorante Gusteau’s e che, secondo l’opinione di chi scrive, è niente di meno che il miglior chef di tutta la Francia! Tornerò presto al ristorante Gusteau’s, di cui non sarò mai sazio!); Carl macera come non mai nel suo ottuso passato, Filippo Mazzarella ha intelligentemente detto che Carl a conti fatti vuole morire, un suicidio fatto d’elio e gomma, lo vediamo già morto dentro. Poi prende in mano l’album dei ricordi della moglie, le sue pagine gli dicono che un avventura è finita è ora di cominciarne un altra. E s’invola di nuovo verso il dirigibile di Charles Mintz. Il padre di Arlo, nonostante la sua cocciutaggine l’abbia portato alla morte (Accade invariabilmente che il punto di partenza della saggezza sia la paura Miguel de Unamuno) si dice orgoglioso del figlio, Non puoi liberarti della paura, è come Madre Natura: non puoi batterla o sfuggirle, ma puoi resisterle e scoprire di che pasta sei fatto. Anche se le zampe palmate non aiutano granché a pedalare, Luca va dall’amico, novello Lucignolo con cui pure aveva rotto per il tentativo d’allontanare l’amica “asciutta” Giulia e lo aiuta a risollevarsi, con il saggio (e menomato) padre di Giulia, robusto e silente pescatore senza pregiudizi che li decreta vincitori, sono mostri marini? Hanno aiutato qualcuno, le cose contano non le apparenze. E Ercole la Joan Severance di Non guardarmi non ti sento si riduce al David Dore del quarto episodio degli Smiling Friends


AUTO, il timone senziente con l’occhio rosso di Hal 9000 e le fattezze del Trimaxion di Navigator vuole che l’umanità muoia. Che non infligga l’ultima ferita al pianeta Terra, sembra Josh Sulley (Marcia does her last downlink to Earth. Josh, on camera, tells whoever is watching that the natural defenses, the immune system, of Pandora will not allow humans to set foot here again. Just like the cold and flu counterviruses were created, a new virus will be created.
It will be a virus lethal to humans. An airborne hemorrhagic fever. A flesheating virus from Hell. If it gets back to Earth as a result of future expeditions here, the whole human race will die screaming. Pandora is off- limits for all time) incrociato a AM (ODIO. PERMETTETEMI DI DIRVI QUANTO SONO ARRIVATO AD ODIARVI DA QUANDO HO INCOMINCIATO A VIVERE. CI SONO 387,44 MILIONI DI MIGLIA DI CIRCUITI STAMPATI IN STRATI SOTTILI CHE RIEMPIONO IL MIO COMPLESSO. SE LA PAROLA ODIO FOSSE INCISA SU OGNI NANOANGSTROM DI QUELLE CENTINAIA DI MILIONI DI MIGLIA NON EGUAGLIEREBBE UN MILIARDESIMO DELL’ODIO CHE PROVO PER GLI UMANI IN QUESTO MICRO-ISTANTE PER VOI. ODIO. ODIO). Ma il capitano McCrea ha visto l’amore tra Wall-e e Eve, nuovi Adamo e Eva di un imminente seconda genesi, ha visto che delle macchine hanno mostrato un umanità di cui loro sono solo l’impigrito eco, perciò impara a camminare, non fluttua più nell’ignavia del suo triclinio-hovercraft, prende in mano letteralmente il timone e lo spegne; guiderà lui, smetteremo di vivere attraverso le macchine e le macchine vivranno con noi. Il container/museo di Wall-e (come non si può non pensare alla Titan After Earth di Don Bluth e Gary Goldman?) Non verrà compattato da un “bell’addormentato” Wall-e che in realtà non si è davvero perso, Giovanni Guareschi diceva che bisognava custodire il seme per i tempi a venire, quel seme già germoglio alla fine cresce in un albero che non verrà mai abbattuto. uelli poi che hanno ricevuto il seme in buona terra sono coloro che odono la parola e l’accolgono e fruttano il trenta, il sessanta e il cento per uno (Marco 8 15 16)
IL ROBOT (FINALMENTE) SELVAGGIO


E finalmente ci siamo. La fine del nostro viaggio legato a come una trilogia di uno scrittore del New Jersey si leghi all’immaginario nipponico robotico, e come si è intrecciato a quello occidentale attraverso 4 film. Su un isola selvaggia dell’America più profonda atavica, come l’Olympic Peninsula di Washington, uno scatolone cargo pieno di androidi va a naufragare con relativa dispersione del contenuto. Parte di esso, la ginoide Rozzum (d’ora in avanti Roz, omaggio a R*U*R Rossumovi Universalznij Roboti di Karel Capek, il dramma teatrale cecoslovacco che diffuse e stabilì il termine robot-dal verbo cecoslovacco che designa il lavoratore, ma pure lo schiavo) si attiva e comincia subito a adempiere la propria direttiva, intervenendo come può in aiuto agli animali autoctoni e oriundi, insofferenti però nei suoi confronti, bollandola come un mostro e-nel caso del violento orso Spina-accogliendola a zampate. Fare amicizia all’inizio è insormontabile, ma almeno la sibillina volpe Fink (erede delle tante, mascalzoni volpi animate, da quella di Pinocchio a Robin Hood a Nick di Zootropolis) decide di stare al suo fianco, comunque temendola come un mostro. Durante uno di questi alterchi incassati come la buonanima del Pupazz di Shadow Fighter Roz cade di schiena sul nido di alcune oche canadesi, distruggendo tutte le uova là al calduccio come un cuculo particolarmente efficiente, mancandone una. Da essa fuoriesce Beccolustro, immediatamente unitosi a Roz per l’imprinting su cui Konrad Lorentz scrisse tutto il suo L’anello di re Salomone. Evitando che Fink ci faccia merenda Roz cresce l’ochetta lentamente vincendo le paure e le diffidenze degli abitanti della foresta, nonostante inevitabilmente configga con il figlioccio a un certo punto, quando conosce la storia della sua schiusa e il “capitombolo” di Roz in questa. Le cose si mettono male anche per lei: nel cercare di riappacificarsi con Beccolustro le si spacca un piede, ma qui assistiamo alla prima contaminazione tra natura e tecnologia, con l’invasato castoro Sguazza, un Sisifo irsuto che affonda da anni le sue mascelle dagli incisivi esagerati nel tronco dell’albero più grande del luogo si fida così tanto del “mostro” da farle un piede di legno. Madre e figlio sono di nuovo insieme e-giudicando le foglie che cambiano colore-l’autunno si sta avvicinando e mentre i mammiferi vanno in letargo gli uccelli ovviamente s’involano per migrare, e Beccolustro ancora non è diventato capace di farlo al 100%. Ma a sentire il suo sensei di volo, Fulmine il falco pellegrino, il mentore come lo sono stati il Dottor Ochanomizu (Piero Leri), il maggiore Bronson (Gigi Pirarba), Tadashi Hamada (Stefano Crescentini), Marc Weidell (Miguel Diaz), Pon (Valerio Ruggeri), sopprimendo l’istinto predatorio gli insegnerà a volare sfruttando le sue ali “troppo piccole” e per Beccolustro comincerà la sua vita adulta, nello stormo di Collolungo, suo secondo mentore che arriverà anche a affidargli la guida del suddetto quando entrati di straforo in una serra robotizzata per rinfrancarsi dalla fatica del volo metteranno in allarme i robot sosia di Roz. Questo porterà la CPU della Universal Dynamics, la AUTO di turno a mandare dei robot armati e molto poco pazienti dove è rimasta Roz, anche lei messasi in letargo con gli animali adesso tutti suoi amici, nell’igloo (Tenda di Gheddafi di Mario Merz) che ha costruito per sé stessa, Beccolustro e Fink, anfitrione nella pacificazione dell’intera foresta patrocinata dall’altruista e abnegante Roz (Most of you hate me and I hate most of you. Everyone in here hates someone else. But here we are and here’s the deal: the first one that walks out that door is dead and if we can’t keep it together in here, everyone’s dead. We all got one chance to see next spring, because of her. The ‘thing’, the ‘monster’. Well, her name is Roz, and while you all ran from her and stole from her and made fun of her all she’s been trying to do is raise her kid. The little one that no one gave a chance… including me. She’s the one who got you out of the storm, built this place, and despite my suggestion that she let you all freeze, she risked everything to bring you here). Amicizia e alleanza che non tradirà Roz pure nel momento in cui noi, spettatori che hanno letto questo articolo e visto tutti i film passati in rassegna ci muoveremo a mormorare “Superman…….” Contro i robot recuperatori. Che dire poi di Sguazza che finalmente riesce a averla vinta sul tronco che per lui è stato quello che le tre rocce di Baaria sono state per Francesco Scianna nell’omonimo film di Giuseppe Tornatore? Aiutare gli altri, e tenerli sempre uniti. Questa è la missione del robot selvaggio. La sua Direttiva, in un mondo che a differenza di quello di EVE non è ancora stato completamente distrutto.
Il citazionismo lo vedete, scorre potente e come nostra prassi su https://animehiro.it/ tutto torna sempre verso il Giappone, tutto è collegato. Musubi è il vecchio modo di chiamare il Dio locale. Questa parola ha un significato profondo. Legare i fili è Musubi, la connessione tra le persone è Musubi. Il flusso del tempo è Musubi. Tutti questi sono i poteri del dio quindi le corde intrecciate che noi creiamo sono le arti del dio e rappresentano il flusso del tempo stesso. Convergono e prendono forma, si torcono, si aggrovigliano. Talvolta si sbrogliano, talvolta si rompono per poi riconnettersi. Musubi, annodamento: questo è il tempo (Makoto Shinkai)

Nell’ultimo capolavoro Dreamworks romanzo a parte abbiamo il tema del robot umano, troppo umano che sente di dover difendere il mondo, la natura dalla quale è avulso come Vega, il guerriero meccanico favolisticamente adunato dalla principessa Luna di Harmagedon la guerra contro Genma di Katsuhiro Otomo, banco di prova per il successivo Akira e tratto da un manga di Shotaro Ishinomori, apprendista di Tezuka, la potente gentilezza di Astroganga e del gigante di ferro (il cui sequel, La donna di ferro, è ampiamente prevedibile….), il bianco di Heroman, Baymax e Ron, purezza come quella che rende Baymax tanto un supereroe quanto-nella miniserie esclusiva Disney+ con il suo stesso nome-il morbido, accogliente infermiere gonfiabile che Tadashi aveva in mente, che in Ron come per Roz a un certo punto nella foresta archetipica, il lampione di Mr Tumnus che con la sua luce guida Lucy verso un posto sicuro e riscaldato nella Narnia persa nell’”Inverno senza Natale” , quella dalla quale si esce solo con l’aiuto di qualcuno, il lucore di Ron, i fari di Roz come quelli del Gigante di ferro


L’abbraccio della natura, il suo ascolto come quel cervo morto, come i guardiani di Laputa un robot che si compenetra con il legno, l’erba e la terra, ne diventa la serra protettiva, come WALL-E & EVE ha una direttiva, come per il film di Pixar grande come il mondo. Dopotutto, è sempre il solito panteismo giapponese. Per lo Shinto in ogni cosa, pure le merci, le macchine, ha un barlume d’anima. Non solo la natura-la cavalla spettrale Bomba dell’omonimo manga di Tezuka, pure le foglie secche di Shaman King-ma appunto gli oggetti eziando. In Himitsu no Akkochan/Stilly e lo specchio magico, shojo di Fujio Akatsuka (co-creatore di Doraemon) la protagonista si accomiata dal suo specchio seppellendolo in una sorta di funerale, comportandosi come quello non fosse un oggetto ma una persona, per non parlare del racconto breve Immacolata concezione di Tezuka dalla sua antologia Mela meccanica, in cui una donna robot convinta di essere una donna umana dopo la morte del “marito” diventa capace di partorire, oltretutto una reincarnazione del marito. Non stupisce che i romanzi di Brown, il film di Sanders (che ha diretto un adattamento di Il richiamo della foresta di Jack London, adattato in un anime dal veterano Kozo Morishita, sue regie di Ryu il ragazzo delle caverne, Capitan Futuro e svariati film di Dragon Ball e i Cavalieri dello zodiaco) e l’autore dei fondali e delle animazioni, Raymond Zibach, Daniel Cacouault e Borja Montoro sprizzino nippofilia dappertutto. Intervento giapponese nella coproduzione? Sì, ma ormai il Giappone è vicino, con buona pace della Cina di Bellocchio. Sono passati 47 anni dall’inizio di questo nuovo japonisme carburato a robot giocattolo e manga, la Pixar ha costruito ponti su ponti, Luca di Enrico Casarosa è “Inoltre funziona bene perché è giapponese. Non nei fatti, ma nello spirito sì. I riferimenti a Miyazaki e allo Studio Ghibli si sprecano, specialmente a quella fase “disimpegnata” dello studio: il coprotagonista vestito come Conan, quel sapore nostalgico stile Kiki e Porco Rosso, di cui la cittadina di Portorosso richiama il nome, l’idea stessa della cronaca di un’estate che ricorda Totoro e Marnie o il delizioso tocco di stile del narrare l’epilogo attraverso illustrazioni sparse nei credits” (Valerio Paccagnella), pure la Dreamworks si è finalmente mossa in questo senso, domo arigato miss yasei no robotto.
